domenica 30 dicembre 2012


OTTAVA DI NATALE



Lunedì 31 dicembre – Ottava di Natale
Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 1, 1-18)

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta [...] Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.[…]. Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato».


Spunto di meditazione e di preghiera personale


Oggi è giornata tradizionalmente dedicata al ringraziamento, con il canto del Te Deum, un inno molto antico, presumibilmente del IV secolo. Ci è sembrato importante dare a chi legge la possibilità di recitarlo davvero: perciò lo riportiamo qui per intero, perché spesso ci mancano parole e cuore per ringraziare (ribellarsi alla vita, mormorare contro tutto e tutti, in definitiva contro Dio, è molto più facile!).
Troviamo allora un piccolo spazio per vivere questo momento di preghiera, possibilmente invitando almeno una persona a farlo con noi, e auguriamoci che ciascuno lo possa compiere nella consapevolezza - che non è di tutti, come ci ricorda questo brano evangelico, perché presuppone un atto libero di accoglienza tutt’altro che scontato - di essere stato graziato, di essere stato rigenerato alla possibilità della vita celeste proprio da Colui che ha preso il peso e le contraddizioni della nostra umanità, i nostri peccati, per riempirci della Sua gloria. Ringraziamo di cuore il Verbo Eterno fatto carne (non semplicemente “uomo”: proprio “carne”, con tutto ciò che la parola implica), che ha piantato la Sua tenda - la sua umanità in tutto e per tutto uguale alla nostra - nel nostro accampamento di pellegrini, per condurci alla Patria vera, per riaprire alla nostra esistenza terrena un orizzonte e una speranza che i nostri occhi erano incapaci di riconoscere. Quale miglior bagaglio per l’anno che sta per iniziare?

«Noi ti lodiamo, Dio, ti proclamiamo Signore. O eterno Padre, tutta la terra ti adora. A te cantano gli angeli e tutte le potenze dei cieli: Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell'universo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Ti acclama il coro degli apostoli e la candida schiera dei martiri; le voci dei profeti si uniscono nella lode; la santa Chiesa proclama la tua gloria, adora il tuo unico Figlio e lo Spirito Santo Paraclito. O Cristo, re della gloria, eterno Figlio del Padre, tu nascesti dalla Vergine Madre per la salvezza dell'uomo. Vincitore della morte, hai aperto ai credenti il regno dei cieli. Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre. Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi. Soccorri i tuoi figli, Signore, che hai redento col tuo Sangue prezioso. Accoglici nella tua gloria nell'assemblea dei santi. Salva il tuo popolo, Signore, guida e proteggi i tuoi figli. Ogni giorno ti benediciamo, lodiamo il tuo nome per sempre. Degnati oggi, Signore, di custodirci senza peccato. Sia sempre con noi la tua misericordia: in te abbiamo sperato. Pietà di noi, Signore, pietà di noi. Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno!»





OTTAVA DI NATALE  -  DOMENICA


Domenica 30 dicembre – Domenica fra l’Ottava di Natale – Festa dalla S. Famiglia
Dal vangelo secondo Luca (Lc 2,41-52)

I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.


Spunto di meditazione e di preghiera personale:  

Il Vangelo scelto per la festa della S. Famiglia ci mette di fronte una situazione non proprio idilliaca… come spesso sono quelle che vivono le famiglie reali, le nostre. Viene fotografato un momento di crisi, di difficoltà seria e di angoscia. Ma questo momento, ecco la sorpresa, diventa un ‘luogo’ di rivelazione.
Il contesto è quello di un pellegrinaggio familiare a Gerusalemme per la festa di Pasqua: quando ha 12 anni Gesù si trova a salire con loro, ma al momento del ritorno decide di restare in città, senza dire nulla a Giuseppe e Maria, che lo perdono di vista per un giorno intero (non è poco, per un figlio unico… e che figlio! ma non dovrebbe essere, la sua cura, l’unica preoccupazione di questi due santi super-affidabili, sulla carta?).
E’ vero, hanno la scusante di crederlo aggregato a qualche nucleo familiare del clan: questi viaggi impegnativi di svariati giorni, settimane addirittura, erano spesso affrontati in carovana dal clan, per superare più agevolmente le difficoltà e difendersi meglio, ed era normale vivere tutto come una famiglia allargata. 
Ma ciò non toglie che il rendersi conto della sua assenza, quando cade la sera e le parentele strette si ricompongono, rappresenti per Maria e Giuseppe, oltre che un momento particolarmente doloroso (lo dirà Maria, due giorni dopo usando una sola parola, “angosciati”: in realtà il termine esprime piuttosto l’idea, diremmo noi, che “abbiamo patito pene d’inferno”, siamo stati “torturati dal dolore”…), anche una fonte di pesanti interrogativi, che in situazioni del genere insorgono spontanei alla mente di ogni comune genitore. Da lì la ricerca affannosa, conclusasi nel Tempio dopo tre giorni (nella tradizione Patristica, prefigurazione dei tre giorni di Gesù nel sepolcro prima della risurrezione: una specie di preparazione a quella separazione ancor più drammatica).
Senza entrare nel complesso significato teologico di questo fatto - il dialogare di quel ragazzo insolitamente preparato e profondo con i sapienti del Popolo Eletto nel luogo più santo di Israele, il Tempio, presumibilmente sulla Torah, sulle profezie messianiche, sul senso di quel momento storico particolare degli Ebrei e dell’Ebraismo, in un “botta e risposta” che stupiva i presenti – Gesù dimostra una cosa importante: di avere già coscienza del suo essere Figlio e di essere venuto al mondo con un compito che supera di gran lunga la relazione con Giuseppe, che si era umanamente preoccupato per la sua assenza improvvisa. 
Lui ha un altro Padre (non c’è polemica o provocazione nelle sue parole, né alcune contestazione, suonano come una constatazione ovvia) ed è fermamente intenzionato a fare la Sua volontà, a costo di addolorare i suoi cari. 
Dovrebbero saperlo, queste due sante persone…
L’episodio però ci dice anche che Giuseppe e Maria hanno ‘lavorato bene’, con questo ragazzo: Gesù, affacciandosi alle soglie della vita adulta, è già in grado di riconoscere la sua missione e di relazionarsi con il Padre “dal quale ogni paternità in cielo e sulla terra prende nome” (Ef 3,15). I legami umani - pur importanti - non soffocano la sua identità più profonda, Gesù non è un’appendice di Giuseppe o di Maria. Non capiscono quel mistero che è stato loro affidato, ma lo servono fedelmente, da buoni amministratori di un dono di Dio che li supera: ecco un grande esempio, per tutti i genitori.






OTTAVA DI NATALE


Sabato 29 dicembre – Quinto giorno dell’Ottava
Dal vangelo secondo Luca (Lc 2, 22-35)

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:

«Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».

Spunto di meditazione e di preghiera personaleIl vecchio Simeone: ecco una figura “laicale” insolita e accattivante, come tante di questo tempo natalizio (quasi tutte, in realtà, se si eccettua il sacerdote Zaccaria). Proprio tra i “non addetti ai lavori”, potremmo dire, Dio si va a cercare i suoi servitori più fedeli, anzi i suoi amici. Chi è Simeone? L’unica cosa che sappiamo di lui - oltre al dato che è un anziano, che chiede di “andarsene finalmente in pace” dopo aver preso tra le sue braccia il neonato Gesù - è che aveva un rapporto speciale con lo Spirito Santo. Cioè con Dio. E Dio ai suoi amici fa rivelazioni singolari: per esempio, nel caso di questo suo fedele servitore, che non avrebbe chiuso gli occhi sulla scena di questo mondo prima d’aver visto premiato il suo desiderio di contemplare il Messia.

Simeone è un po’ la sintesi dell’attesa messianica di Israele, rappresenta la parte più sana e matura del Popolo Eletto, quella preparata ad accogliere il Promesso, l’Unto del Signore, pronta a riceverlo con desiderio indefettibile e con sguardo soprannaturale acuto e penetrante. E’ il credente vero, quello che magari non ha titoli, ma che possiede la sapienza più genuina, sa andare oltre le apparenze e sa leggere segni che ad altri sfuggono.


Simeone è anche un buon esempio per noi, ci insegna cosa (chi… e come) dovremmo aspettare, quali desideri dovremmo coltivare. Simeone ha nel cuore il Consolatore (Paràkletos) e per questo aspetta la consolazione (paràklesis) di Israele: non solo la sua personale, ma quella di tutto un popolo. Lo rallegra non la realizzazione di qualche aspettativa materiale, ma il vedere Colui che salverà questo popolo, scendendo in mezzo ad esso come elemento di discernimento, di separazione e di distinzione, per rendere evidente ciò che ciascuno porta dentro, in Israele.
Bisogna saper aspettare, nella vita, e soprattutto saper desiderare in sintonia con lo Spirito: questa attesa e questo desiderio sono sempre premiati.
 

venerdì 28 dicembre 2012



OTTAVA DI NATALE


Venerdì 28 dicembre – Santi Innocenti martiri
Dal vangelo secondo Matteo (Mt 2, 13-18)

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo». Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio».
Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: «Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più».

Spunto di meditazione e di preghiera personale
Questo brano evangelico mette davanti a noi la figura di Erode il Grande, re della Giudea sotto il protettorato romano, dal 37 a.C. alla sua morte. Sappiamo dalla storia che era una personalità per certi versi straordinaria, ma di temperamento estremamente diffidente e sospettoso: diede continuamente segni di spietatezza e crudeltà; spesso angosciato da timori di complotti e cospirazioni, fece uccidere una delle mogli ed alcuni dei suoi figli, temendo che complottassero per spodestarlo. La sua vicenda umana, grandiosa - come dice il suo appellativo - ma macchiata di molto sangue, di atrocità e di ingiustizie (quanto spesso ciò che è ‘grande’ per gli uomini si colora di queste sfumature sinistre!) si incrocia con quella di Gesù… Erode è l’unico a muoversi da Gerusalemme, dopo l’arrivo dei Magi che annunciavano l’avvento di un Re in Israele, e lo fa per paura. La paura genera violenza che uccide, non c’è niente di più banale e terribile purtroppo.
Noi ricordiamo oggi la sorte di questi bambini, testimoni (‘martiri’ significa questo) muti e ignari di un altro Agnello, il cui sacrificio è solo rinviato (e vi parteciperà un altro Erode, come sappiamo). Agli occhi del mondo, c’è solo ingiustizia, violenza cieca e irrazionale: nessuna logica può essere ricostruita dentro questa storia, quindi abbiamo il diritto (il dovere, secondo alcuni) di indignarci e di rifiutarla, o di accantonarla come un assurdo, uno dei tanti di cui è piena l’umana vicenda. Oppure… oppure il pianto inconsolabile di Rachele (qui figura simbolica, un’eco di Ger 31,15) prelude, come già nel libro del profeta Geremia, ad un intervento straordinario di Dio, che riscatterà a modo suo, come solo Lui sa fare, tutte le lacrime e tutto il dolore ingiusto e assurdo, gratuito e bestiale, di cui è pieno il mondo, in ogni epoca.
La forza del segno della festa di oggi è proprio questa: non c’è nulla da spiegare o da razionalizzare, non c’è “riflessione teologica” astratta che tenga, ma solo una testimonianza non assurda ma gratuita, dolorosa ma non disperata, da accogliere nella fede e nella speranza. Il sangue di agnelli innocenti viene misteriosamente unito dalla mano pietosa del Padre a quello di Cristo, vero agnello pasquale, e misteriosamente partecipa della Sua risurrezione, per salvare il mondo dalla paura e dalla menzogna di cui Erode - i tanti Erodi di ogni tempo - è il primo banditore.





giovedì 27 dicembre 2012



OTTAVA DI NATALE



Giovedì 27 dicembre – San Giovanni Evangelista
Dal vangelo secondo Giovanni (Gv. 20, 2 - 8)

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala corse e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!»
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 

Spunto di meditazione e di preghiera personale:
Questo è il brano che la Liturgia di oggi ha estrapolato dal Vangelo di Giovanni per la sua festa: è conosciuto come “il discepolo amato”, colui che ha voluto firmare così il suo mirabile Vangelo dei Segni, rimanendo nell’ombra o meglio accontentandosi di definirsi semplicemente come “un uomo amato da Gesù”.
Questo Vangelo Giovanni lo ha scritto, ci dice rivolgendosi a noi, suoi ascoltatori, “affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,31). E proprio per questo la Parola di oggi ce lo pone davanti come uomo di fede, fotografato mentre corre, corre verso il sepolcro, precedendo Pietro.
Giovanni è il primo nello zelo per Cristo, il primo nell’intuizione delle profondità del mistero e nella contemplazione… è il primo - l’unico, anzi – ad appoggiare il suo capo sul cuore di Gesù, durante l’Ultima Cena, ascoltandone il battito mentre Lui, il Maestro, parla con amore della sua passione e del suo traditore, l’amico Giuda che intinge con lui la mano nel piatto (Gv 13,23). E’ l’unico apostolo sotto la croce, gli altri sono fuggiti. E’ sempre lui che proprio lì riceve, anche a nome nostro, dalle labbra di Gesù morente, la Vergine Maria come madre.
Giovanni è anche il primo ad aprirsi nello Spirito alla fede, davanti al sepolcro vuoto: un segno ancora misterioso, come dirà subito dopo. Però è il primo anche … nel cedere il passo a Pietro, nel dare a Pietro la precedenza, riconoscendogli sin dall’inizio quella missione di confermare nella fede i fratelli che il Signore gli aveva ribadito, poche ore prima di morire (Lc 22,32): il primo nell’umiltà, nell’obbedienza, nella fedeltà al Maestro, sempre.






mercoledì 26 dicembre 2012



OTTAVA DI NATALE


Mercoledì 26 dicembre – Santo Stefano, Protomartire
Dal vangelo secondo Matteo (Mt 10, 17-22)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. Ma, quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. Il fratello farà morire il fratello e il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato».
Spunto di meditazione e di preghiera personale:
Siamo nell’Ottava di Natale, che arriva fino al 1° gennaio compreso, solennità di Maria Ss.ma Madre di Dio. La storia del diacono Stefano, primo martire, è particolarmente toccante e occupa quasi due capitoli negli Atti degli Apostoli (At 6,5 – 7,60): merita più spazio e attenzione di quelli che possiamo dedicarle qui, e può rappresentare una lettura personale molto fruttuosa. 
Perché questa scelta della Liturgia? La memoria di un martire (il primo in assoluto) non sembra a prima vista in sintonia col Natale, perlomeno con la visione più stereotipata di questa solennità. In realtà, come la tradizione ecclesiale ha sempre sottolineato, c’è una continuità profonda tra il mistero che abbiamo celebrato ieri - e che prolunghiamo in tutta l’Ottava, come fosse un unico giorno di festa - e quello che festeggiamo oggi. Infatti, già dai primi secoli della storia della Chiesa nei giorni seguenti alla manifestazione del Figlio di Dio nella carne furono posti i “comites Christi”, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e i primi a renderne testimonianza. Così, a S. Stefano segue, il 27, S. Giovanni Evangelista, il “discepolo amato” da Gesù, autore dello straordinario Vangelo che porta il suo nome; poi il 28 i Ss. Innocenti, i bambini di Betlemme uccisi da Erode con la speranza di eliminare anche il Gesù.
S. Stefano, in particolare, è il frutto maturo del Seme apparso ieri: l’umanità di Cristo ‘piantata’ nella vicenda umana porta frutti di altra umanità, finalmente risanata, rinnovata. Gesù, assumendo la nostra natura, ‘contagia’ la creazione con l’amore, capace di spingersi fino al dono totale di sé, sulla croce (come ci ricordano le icone orientali della Natività). Stefano quindi è il credente giunto alla statura piena, che è capace di dare la sua vita (= il sangue, nella visione ebraica dell’A. T.) per amore a Cristo e alla verità, senza preoccuparsi di se stesso. E’, soprattutto, colui che, mentre muore lapidato come un bestemmiatore per aver annunciato il Messia in Gesù di Nazareth, perdona i suoi uccisori, come il suo Maestro. Ma non finisce qui: è anche colui dal cui sangue fiorirà la conversione di Saulo di Tarso, suo accusatore e carnefice, che finirà per esserne fratello e compagno nel martirio, San Paolo appunto. Davvero “sanguis (martyrum) semen christianorum est”, come sintetizzava l’Apologeta Tertulliano: sangue di Cristo, sangue di Stefano, sangue di Paolo...